Breve profilo della storia letteraria umbra (1964)

Breve profilo di storia letteraria umbra, pubblicato con il titolo Laudato si’ mi Signore in Aa.Vv., Umbria cit., quindi raccolto con il titolo «Umbria» in W. Binni, N. Sapegno, Storia letteraria delle regioni d’Italia, Firenze, Sansoni, 1968; poi, con successive modifiche e il titolo definitivo, in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 1984 e successive.

BREVE PROFILO DELLA STORIA LETTERARIA UMBRA

Solo con gli inizi della civiltà comunale si può parlare meno ipoteticamente di una vita culturale piú distinta e comune dell’Umbria nei limiti approssimativi dell’attuale regione. Ché fino ad allora l’originaria divisione fra la zona etrusca facente capo a Perugia e Orvieto e la zona degli antichi umbri centrata in Spoleto, malgrado la successiva comune dominazione romana (quando da un punto di vista letterario potrà calcolarsi in Umbria, piú che la incerta origine ternana del grande Tacito, la documentata presenza umbra dell’assisano Properzio che per primo apre uno sguardo poetico su quella valle spoletana che provocherà il «nihil jucundius» di san Francesco), si riproduce nella nuova divisione fra l’Umbria bizantina (il ducato di Perugia) e quella del ducato longobarbo di Spoleto, il quale mantiene a lungo una certa autonomia anche dopo l’inclusione nei confini del dominio di San Pietro.

La lunga divisione e la tensione militare che fa dell’Umbria un terreno di aspre lotte, nell’Alto Medioevo, cedono poi ad una vita nuova e piú feconda con il precoce formarsi dei comuni cittadini, con la loro nuova dinamica interna ed esterna, con i rapporti loro con i comuni toscani, la Curia romana e il comune di Roma: rapporti che hanno al centro la progressiva forza del comune di Perugia con la sua posizione fra Umbria e Toscana (ancora nel Pecorone Perugia è considerata addirittura città toscana), con la saldezza dei suoi ordinamenti comunali, con la sua politica di alleanza con Firenze e di guelfismo gelosissimo della propria autonomia anche di fronte allo Stato Pontificio. E a questa nuova vita politica e sociale corrisponde una intensa vita religiosa popolare che ha superato i margini piú limitati delle forme monastiche prevalenti nei primi secoli del Medioevo.

Una forte vita di autonomie cittadine e popolari trova ben presto espressione culturale e artistica soprattutto in forme pubbliche e collettive: il sorgere dei maggiori edifici pubblici (chiese e palazzi comunali), e una prima espressione di tensione linguistico-poetica di tematica religiosa relativa alla diffusione di inquiete correnti di tipo apertamente ereticale (il forte movimento patarino di Orvieto), e di piú forti correnti di riforma interna della Chiesa ad iniziativa dal basso, stimolate dalle stesse autonomie comunali nei confronti della Curia romana.

Fortemente legato a questa spinta popolare e religioso-democratica (si ricordi che il nome dei frati «minori» riprendeva quello della parte popolare del comune di Assisi), anche se personalmente dotato di una cultura ecclesiastica e profana assai vasta (fra la sicura conoscenza dei testi biblici e l’amore per la letteratura romanzesca francese, penetrata da tempo, anche a livello popolare e leggendario, nella fantasia umbra), Francesco d’Assisi (1182-1226) è il potente e originalissimo interprete di questa viva e vasta tensione spirituale a base popolare, alla cui luce egli rivede e indirizza la sua stessa formazione culturale e la sua precoce esperienza di vita cittadina (la gioventú spensierata e signorile, esperta di raffinatezze e di lusso, la partecipazione alla vita militare del suo comune) in direzione di una religiosità estremamente concreta, che ha superato la tentazione monastica e la semplice via ecclesiastica. In una prospettiva quindi di rinnovamento religioso-morale comunitario, di iniziativa dal basso, fortemente connessa con la vita associata, non in forme di compromesso mondano, ma di attiva integrazione, di aggiunta alla vita popolare di cui si esaltano le forme piú autentiche di semplicità, di schiettezza, di aspirazione alla pace, di rinuncia alla fruizione del superfluo e dell’inutile, non certo alla fruizione di beni essenziali, di elementi di gioia naturale, di letizia severa e originaria, del senso religioso ed estetico delle cose, del vitale raccordo con tutte le creature e gli elementi della natura.

Sicché la lode si esprime non in forma di dubbio idillio, ma di religiosa e naturale concordia creaturale, che potentemente rinsalda il medievale sentimento teocentrico della vita e rompe di fatto (malgrado la posizione non ereticale) ogni mediazione gerarchica fra Dio e le creature. E queste cosí coralmente costituiscono l’unico tramite autentico fra Dio e l’uomo ispirato da un fervore di preghiera comunitaria che sale fino alla non casuale conclusione del Cantico nella potente sequenza degli uomini che perdonano ai nemici per amore di Dio. Teocentrismo dunque, ma non annullamento dell’umano e del terreno, del naturale, che si esprime attraverso il cantore religioso, l’apostolo attivo (il cantico non è solo lode, ma invito ad una lode che coinvolge tutta la vita morale sino all’appello al perdono, alla pace, alla rottura del dramma dell’uomo-lupo cosí presente all’animo dell’uomo della tormentata vita comunale), nelle sue note essenziali, senza estetica dilettazione dispersiva, ma con un senso potente dell’intrinseca bellezza dell’essenziale e dell’autentico. E se moduli e temi del Cantico provengono dal possesso di testi biblici, il fervore creativo di questo canto personale-corale li rielabora in forma originalissima, con un linguaggio nuovo che ha tutta la potenza nascente di un mezzo espressivo portato a funzioni piú alte, anche se è stato notato come già precedentemente, proprio in Umbria, alla metà dell’xi secolo, il volgare era già stato usato, nel monastero di Sant’Eutizio, vicino a Norcia, per un atto di fede, che contiene, fra l’altro, una significativa promessa di «sancta treva», di tregua nei rapporti ostili della incipiente vita comunale.

Il monumento del Cantico francescano, grandioso contributo della tensione spirituale-espressiva umbra alle origini della nostra lingua e letteratura, è certo, nell’arco di una esperienza e di una creatività personalissime, anche grandiosa prova della maturata civiltà umbra del Duecento, civiltà popolare e concreta, in cui realtà e fantasia sono unite da un possente fervore spirituale le cui punte mistiche non perdono mai la loro base di realtà e di umanità: come avverrà poi anche nei Fioretti di san Francesco e specie nella loro prima parte piú candida e realistica, che può rispecchiare nel volgarizzamento trecentesco fiorentino le forme piú antiche e di ispirazione umbra della corrispondente parte degli Actus beati Francisci et sociorum eius scritti quasi certamente da un marchigiano frate Ugolino da Monte Santa Maria tra la fine del Duecento e i primi del Trecento. E se piú tardi, nel corso del pieno Duecento, alle stesse difficoltà della trasformazione del movimento francescano in ordine (donde la divisione di conventuali e spirituali) e alla persistenza accresciuta di un contrasto fra la tensione rinnovatrice accesa da San Francesco e la realtà di una vita pratica e politica da quella difforme, corrisponde una piú esasperata tendenza mistica (che sfocia nel movimento dei flagellanti promosso dal perugino Ranieri Fasani nel 1260, l’anno che, secondo la profezia di Gioacchino da Fiore, avrebbe segnato l’avvento dello Spirito Santo con il suo regno), questa protesta contro il mondo corrotto e diviso, a cui si mescolano istanze sociali di ceti sfruttati e oppressi, non rimane sul piano di un moto elementare e incapace di coscienza e di espressione. L’alacre moto fantastico che percorre lo spirito umbro duecentesco, avvalendosi anche delle scoperte tecniche che vengono dalla vicina e piú letteraria Toscana (la nuova utilizzazione della ballata profana in prospettiva di canto e laude religiosa da parte di Guittone d’Arezzo), sostiene e invera quel complesso mondo di esigenze religiose-morali nella creazione dei laudari assisani, perugini, e poi todini e orvietani, che saranno spinta ed esempio per i laudari delle vicine regioni sotto l’influenza di questo momento creativo della iniziativa umbra.

I laudari umbri – che andrebbero poi (come recentemente ha indicato un valido studioso umbro, Ignazio Baldelli) distinti e articolati su linee di poetiche diverse che ne arricchiscono la pregnanza storica e il significato di tradizioni artistiche (quelli, piuttosto anteriori, di Assisi, mossi da uno spirito piú ribelle e quasi ereticale, quelli perugini, piú trecenteschi, volti a compiti piú educativi-religiosi su cui influí la presenza domenicana) – offrono una imponente messe di testi che, impiantati in una forte generale tensione spirituale-espressiva, giungono a volte ad esiti poetici veri e propri, aprendosi insieme a quella dimensione drammatica della lauda, con cui la civiltà letteraria umbra collabora originalmente alla creazione del teatro sacro italiano. Ma, al di là dei possibili recuperi artistici particolari e del significato storico-letterario delle laudi nel loro complesso, la profonda iniziativa umbra raggiunge, fra Duecento e Trecento, un eccezionale risultato poetico nell’opera di Jacopone da Todi.

Dall’interno dell’Umbria, da una città che vede in questo stesso periodo la creazione dei suoi possenti edifici pubblici e religiosi e vive una intensa vita comunale, e alle cui condizioni borghesi di cultura prevalentemente giuridica e teologica egli stesso largamente aveva partecipato nella sua formazione (addottorato in legge, esercitò la professione di notaio: non dunque, come una volta si pensava, poeta incolto e rozzo, estemporaneo, improvvisato e folle giullare di Dio), Jacopo de’ Benedetti (Todi 1230/1240-1306), detto Jacopone, leva la sua robusta voce poetica. Voce di una violenta protesta contro il mondo corrotto e la chiesa traditrice del suo messaggio cristiano, che trova il suo centro polemico e lirico in un supremo bisogno di identificare, con un realismo immaginoso e per eccesso – che non perde però mai la base concreta di una esperienza reale –, due poli di tensione: la designazione degradante del mondo, del peso peccaminoso mondano, e l’esaltata visione di un sopramondo paradisiaco il cui possesso implica e comanda il primo rifiuto del mondo. L’alto esito mistico che trova accenti lirici altissimi e assimila all’amore divino un sentimento trasfigurato dell’amore mondano, anche se pare tendere all’ineffabile, al non detto e non dicibile, si regge effettivamente su di una potente volontà e capacità espressiva e fantastica, che, sulla base di un tudertino illustre e con l’appoggio effettivo di una cultura (pur negata nelle sue pretese aristocratiche e mondane), crea una originalissima lingua poetica anzitutto mossa dal violento raccordo fra pressione interiore e parola espressiva. Sicché potrà pure accettarsi in tal senso il rapporto mistico-poeta, ma non per limitare le qualità del poeta, sibbene per avvalorarne l’intensità e la necessità interiore. Né, d’altra parte, l’accentuazione mistica deve condurre a dimenticare la ricchezza e profondità dell’esperienza umana che la sorregge, il raccordo stesso di certe esaltate rappresentazioni celesti e mariane con una base di singolare popolarità ed essenzialità di esperienze umane fondamentali: come il tema della madre e delle sue trepide cure per il proprio lattante che ritorna fino alle note altissime del dramma della crocifissione del celebre Pianto della Madonna, in cui la poesia jacoponica trova il suo esito massimo, la sua piú implacabile e affettuosa intensità di realismo intero, cui obbediscono profonde capacità di costruzione, di ritmo, di scena. In questo capolavoro, fra i maggiori del Medioevo romanzo, la tensione spirituale ed espressiva umbra ha raggiunto il suo culmine insuperato.

Ma pure con esso non si chiudono ancora le possibilità creative del grande periodo due-trecentesco. E mentre l’elaborazione dei laudari si intensifica dopo Jacopone, e di Jacopone spesso risente, fino a propaggini di scuola jacoponica anche fuori dell’Umbria (con riprese poi piú popolari degli elementi piú polemici e profetici nei componimenti piú estemporanei di francescani ribelli come fra’ Tomasuccio da Foligno), specie nel Commune maius di Perugia (che nel Trecento può avvicinarsi ai maggiori comuni di Firenze e Siena) si svolge una intensa vita culturale e letteraria fortemente legata allo sviluppo, alla potenza della città maggiore dell’Umbria, che ormai di fatto predomina in tutta la regione ed è roccaforte di un guelfismo che le dà una funzione di alleata di Firenze, mentre tanto piú la autorizza ad una gelosa difesa della propria autonomia rispetto al potere pontificio, dal quale si difende con guerre e dal quale si riscatta, se occupata, con furibonde rivolte a carattere popolare.

Cosí a Perugia, accanto allo svolgersi della lauda (che ha propri caratteri e insieme risente a volte della forma della lauda assisana e todina), la stessa attività amministrativa e legislativa comunale (appoggiata dalla grande scuola giuridica di Cino, Bartolo, Baldo, maestri nell’Università) nobilita l’uso di un vigoroso perugino illustre nella stesura del grande Statuto volgare del 1342, ed esercizi di prosa e di poesia si alternano fra la prosa del Conto di Corciano e di Perugia – che, riecheggiando la materia delle leggende di Francia e di Troia (diffuse da tempo in Umbria e particolarmente trasmesse a Perugia da una tradizione di «canterini»), la inserisce però nelle tradizioni locali, traendo da un livello letterario piuttosto elementare non rari momenti di efficacia favolosa e commossa – e la poesia dei poeti perugini realistici, operanti tra il 1320 e il 1350. Ed è a questi certo (piú che a qualche isolata voce umbra come quella di Bosone Novello de’ Raffaelli di Gubbio, lodatore e imitatore di Dante, o come quella del piú noto, ma frigido, imitatore dantesco, Federigo Frezzi, lettore di teologia e vescovo di Foligno, autore del Quadriregio iniziato prima del 1394 e terminato fra il 1400 e il 1403, o a qualche altro rimatore perugino corrispondente del Petrarca, come Andrea Stramazzo) che deve rivolgersi l’attenzione di chi ricerchi un contributo umbro della letteratura nazionale, accanto a quello dei laudari.

Infatti, se nel gruppo di questi rimatori solo Marino Ceccoli ha esiti piú sicuramente poetici – fra certa piú dolente passionalità che scaturisce dalla sua vicenda amorosa omosessuale e una capacità originale di realismo nella rappresentazione di scene campagnole cui conferisce maggiore schiettezza un uso pur non elementare di elementi linguistici locali –, nel loro insieme il Ceccoli, il Nuccoli, il Moscoli (che è quello che ha piú varietà tematica e piú intensa ricerca tecnica), per non dire dei piú scialbi Lelli, Borscia, Manfredino, costituiscono pure una zona interessante, male assimilabile alla pura e semplice linea dei giocosi toscani, e appoggiata, persino nella scoperta espressione di una tematica di amore «coridonesco», da una vita cittadina cólta e spregiudicata, ricca di gusto della realtà concreta, aperta alla espressione di vicende di esperienza e di uno sguardo assai vivace sullo spettacolo della natura contadina. Umbri sono inoltre alcuni autori di rime per musica e danza assai elogiati dai contemporanei come Niccolò da Perugia e Simone Ugolino Prudenzani, nato a Prodo e operante ad Orvieto.

Con il Trecento si esaurisce la maggiore vitalità della civiltà e della letteratura umbra, si chiude il maggiore capitolo «umbro» della nostra letteratura nazionale. Tuttavia sarebbe errato, in una prospettiva di storia culturale e letteraria regionale, non rilevare un persistere di condizioni culturali e artistiche in Umbria durante il periodo umanistico e rinascimentale, a parte il fatto che in questo periodo pur vive una iniziativa e creatività delle forze artistiche della regione nella elaborazione di una propria scuola pittorica a cui sarà legata, a Perugia, l’educazione stessa di Raffaello. Ridotta la piú libera e intensa vita cittadina con le rovinose lotte delle fazioni e delle famiglie piú potenti e con l’affermarsi (pur nel mantenimento, in genere, di ordinamenti comunali e nella continuata politica di autonomia entro i margini dello Stato Pontificio) di signorie, come quella dei Baglioni a Perugia, dei Trinci a Foligno, dei Vitelli a Città di Castello, lo stesso sorgere di quelle signorie provoca fenomeni di mecenatismo non disadatti al diffondersi della cultura umanistica, al soggiorno in città umbre di letterati di altre regioni, come il Cantalicio a Foligno, o a Perugia il Campano e, piú tardi, l’Aretino e il Firenzuola.

E se la maggior personalità umanistica di nascita umbra, Giovanni Pontano (1426-Napoli, 1503), di Cerreto di Spoleto, dopo una prima educazione umanistica a Spoleto e a Perugia passò presto a Napoli, e della sua origine non affiorano nella sua attività piú che alcuni ricordi della fanciullezza e adolescenza, certo a Perugia fiorí una cultura umanistica latina e volgare che trovò appoggio in una notevole attività editoriale a Perugia e Foligno (qui Emiliano degli Orfini pubblicò nel 1472 la prima edizione della Divina Commedia, a Perugia furono attivi a lungo il Cartolari e Bianchino del Leone) e conobbe anche forme di attività letteraria piú consolidate: come quella di Francesco Matarazzo (umanisticamente Maturanzio, 1443-1518), autore di una importante cronaca e di molte opere latine, e di Lorenzo Spirito Gualtieri (1426-1496), autore di un poema encomiastico in onore di Niccolò Piccinino, L’Altro Marte, di una imitazione dei Trionfi petrarcheschi, La Fenice, sviluppata in senso piú chiaramente umanistico e con interessanti elementi magici, nonché di un canzoniere petrarchistico che venne, in seguito, in occasione della pubblicazione di una sua edizione postuma, corretto alla luce di criteri linguistici bembistici indicandoci in tal modo il passaggio, anche nella zona perugina, ad esigenze letterarie e linguistiche rinascimentali.

Del resto uomini come l’Aretino e lo stesso Raffaello poterono trovare a Perugia umanisti e verseggiatori (come quell’Antonio Mezzabarba ricordato con rispetto dall’Aretino) che venivano volgendosi verso il petrarchismo bembistico. E questo a Perugia ebbe cultori (mentre a Foligno fioriva Petronio Barbati, contraddistinto da una tematica di tipo pastorale che piacque poi agli arcadi, e a Città di Castello la delicata Francesca Turina), fra i quali spicca, a forte livello, Francesco Beccuti detto il Coppetta (1509-1553), personalità molto interessante, piú ancora che per le sue poesie satiriche e burlesche di tipo bernesco (che pur furono in lui non prive di rapporto piú interno con i momenti di noia e scetticismo della sua vicenda vitale tormentata e dissipata e hanno capacità di coloritura linguistica tanto maggiore delle satire poi di un Caporali), per le sue liriche amorose (scritte per Francesco Bigazzini), piene di un’urgenza sentimentale e sensuale che provoca insieme una disposizione morale dolente, di lucida confessione e introspezione. Mentre ad una vita teatrale rinascimentale in Perugia ci richiamano sia le minori prove «peruginesche» di Mario Podiani, sia, e anche piú, le notevolissime commedie del giurista Sforza Oddi (1540-1611), che arricchiscono il tessuto comico di forti e nuove note patetiche.

Decisiva a segnare una svolta nella storia umbra e a ridurne la vitalità nei piú rigidi limiti di una semplice provincia dello Stato Pontificio fu l’azione politica e militare di Paolo III, che si volse decisamente a fiaccare ogni resistenza del maggiore comune umbro, Perugia, angariandolo con imposizioni di tasse e con abolizioni di privilegi, finché non poté provocare l’aperta ribellione armata (la guerra del «sale», del 1540) e poté cosí distruggerne definitivamente la forza militare, economica, politica.

L’erezione della celebre Rocca Paolina significò allora la completa sottomissione perugina e umbra al potere pontificio, la fine dei liberi ordinamenti perugini e della funzione antipontificia del maggiore comune umbro, l’inizio di una progressiva decadenza di vita autonoma locale anche culturale. Decaduta l’agricoltura, privata di ogni piú attivo sbocco commerciale specie verso la Toscana (da cui ora l’Umbria viene piú nettamente separata), la vita sociale umbra vede nelle città il netto predominio del potere pontificio e di una classe nobiliare a quello direttamente legata, e, nelle campagne, una progressiva decadenza con ritorni a forme semifeudali e al dilagare di arbitri briganteschi da parte della inselvatichita nobiltà campagnola.

E la cultura e la letteratura (mentre decade e sfiorisce la tradizione pittorica umbra e la nuova architettura barocca trova scarse ragioni di produzione nelle stanche condizioni economiche della regione) vengono perdendo a poco a poco di vero vigore e si risolvono nell’attività minore di un accademismo provinciale (l’Accademia piú attiva sarà quella perugina degli Insensati, fondata nel 1561), in cui vien prevalendo un gusto satirico-comico già anticipato in certa produzione del Coppetta e surrogato di impegni piú profondi ricollegandosi, entro certe sue caratteristiche piú provinciali, agli sviluppi piú discorsivi del bernismo e ad una volontà di dissoluzione comica dell’eroico e dell’orgoglio umanistico che ha in Umbria vari esempi non inefficaci su questa linea di letteratura, minore anche in campo nazionale, fra secondo Cinquecento e Seicento.

Saranno cosí da ricordare, come un apporto umbro di qualche interesse a questa direzione, i poemi burleschi di Giambattista Lalli di Norcia (1572-1637), la Moscheide, la Franceide, l’Eneide travestita, o la Cicceide di Gianfranco Lazzarelli di Gubbio (morto nel 1694) e – con un di piú di volontà critica e di capacità di linguaggio dimesso, insaporito di forme locali – i componimenti satirici del perugino Cesare Caporali (1531-1601), tra i quali, se il Viaggio di Parnaso e gli Avvisi di Parnaso poterono meritare l’attenzione del Boccalini, la Vita di Mecenate appare piú efficace e significativa su quella via di una risoluzione del classico e dell’eroico in forme burlesche e borghesi che corrisponde, ripeto, ad una flessione di serietà in un surrogato di spirito caustico, corrispettivo di una reazione critica e scettica a condizioni di vita depauperate e mediocri.

Componente satirica e critica che può ritrovarsi anche nelle compilazioni fra erudite ed estrose del frate perugino Secondo Lancellotti (1583-1643), che è certo la piú notevole personalità umbra nell’epoca e nelle cultura barocca e che non manca di una piú chiara velleità di battaglia culturale a favore del gusto e della mentalità moderna contro i rimpianti degli «oggidiani» per un passato di cui si dissolvono i pregi e la dignità eroica. Sulla base di una piú seria schiettezza almeno programmatica («quello ch’è pane tenendo e dicendo pane»), di una irrequieta e ben barocca smania di intervento e di una voracità di cultura che sfocia nel progetto di un «totale» inventario di tutte le attività umane (Acus nautica sive expeditissima ad quamcumque de re qualibet orationem datis e tanta copia scriptoribus via), l’attività letteraria del Lancellotti – appoggiata insieme ad una barocca vicenda vitale di affermazione personale in peregrinazioni sempre ritornanti al centro fuggito e sempre cercato della città natale – trova un posto nella discussione letteraria e culturale barocca sia con i Farfalloni degli antichi historici sia, e piú, con l’Hoggidí, che assai fortemente si inserisce nella polemica contro il culto passivo e assurdamente nostalgico della tradizione classica e nelle origini barocche della querelle antichi-moderni, anche se questa battaglia per la modernità e per un incipiente naturalismo sfocia per lo piú in una trasfigurazione grottesca dell’antico, in una satira fatta piú di sfoghi estrosi che di solidi ragionamenti.

E se la prospettiva di modernità del gusto barocco nella lirica marinistica trova pur vita a Perugia – fra l’outrance con cui Anton Maria Narducci esaspera la rappresentazione di temi erotici ripugnanti (come nel sonetto sui pidocchi rimasto famoso nel campionario estremo di una insistita tematica), il gusto piú melodico e madrigalesco di un Filippo Massini (1559-1617), capace di piú modesti recuperi di concreta realtà domestica –, in Francesco Melosio di Città della Pieve (1609-1670) ancora una volta affiora la tendenza umbra ad una disintegrazione delle stesse ragioni barocche nella utilizzazione burlesca e giocosa del metaforismo e del concettismo. Tutto sommato, c’è pure una partecipazione non insignficante della provincia culturale umbra al barocco italiano, mentre ancor piú dissolta nei caratteri di una tipica ma feconda appendice provinciale del centro romano appare la pur numerosa e attiva partecipazione di letterati umbri alla costituzione e vita d’Arcadia, in cui ebbe peso ufficiale la presenza dello spoletino Vincenzo Leonio (1650-1720), braccio destro del Crescimbeni e massimo ispiratore delle costumanze pastorali. Numerosi comunque furono gli arcadi umbri (fra i quali si fa luce soprattutto la voce delicata di Gaetano Passerini di Spello), numerose furono le colonie arcadiche umbre, fra le quali spiccò quella di Perugia, fondata nel 1708 e capace di stimolare una modesta attività letteraria che venne rianimando la stanca vita della nobiltà e della borghesia locale, promovendo anche una certa vita teatrale documentata dal teatrino del convento di San Pietro (dove don Placido Ariani rappresentava le sue gustose e piú regolarizzate versioni di scenari della commedia d’arte), dalla tarda costruzione dell’anfiteatro arcadico del Frontone, dei nuovi teatri cittadini nobiliari e borghesi.

A questa modesta vita letteraria (pur illustrata a livello nazionale dalle origini familiari assisane del Metastasio o di quelle todine del Rolli e dalla stessa stanca vecchiaia todina di questo, che pur volle intitolare Tudertine le sue tarde poesie e cantò il cielo azzurro e l’aria limpida dell’Umbria) corrisponde una certa ripresa di rapporti culturali eruditi, soprattutto fra Perugia e altri centri italiani, e una piú intensa attività di storia ed erudizione locale (Giacinto Vincioli [1684-1742], Vincenzo Cavallucci [1700-1787]) che trovò, nel tardo Settecento, un maggiore respiro nell’attività di scienziato, erudito, letterato di Annibale Mariotti (1738-1801): nel quale un maggiore affiatamento con le tendenze rinnovatrici dell’illuminismo riduce i limiti di una cultura a base prevalentemente erudita e apre, in Perugia, la possibilità di un incontro anche etico-polico con le idee democratiche e rivoluzionarie, che preparò la breve vicenda della partecipazione di una élite intellettuale cittadina al governo repubblicano instaurato dai francesi e difeso con le armi contro le truppe sanfedistiche aretine.

Sicché, mentre in molta parte della regione rimaneva prevalentemente il legame con la Roma papale e reazionaria (e anzi Foligno e Assisi furono, negli anni rivoluzionari, centri editoriali attivissimi della pubblicistica antirivoluzionaria), a Perugia l’epoca della Restaurazione trovò forti resistenze e da Perugia si dilatò un moto di idee risorgimentali e liberali che vengono rinnovando il volto culturale della regione, almeno nei suoi aspetti di cultura politica. Perché, quanto ad una vera e propria dimensione letteraria, non si può certo dire che il forte impulso politico e la piú accentuata e aggiornata attività storica ed erudita (fra G.B. Vermiglioli [1769-1848] e le maggiori figure degli archeologi Ariodante Fabretti e Giancarlo Connestabile) provocassero un’adeguata vita letteraria, che, in epoca romantica, rimase ferma (dopo il maggiore impegno isolato di Francesco Torti di Bevagna [1763-1842] nella battaglia antipurista, nella storiografia letteraria non priva di nessi con la sua battaglia antiteocratica) ad un dignitoso esercizio classicistico (Vincenzo Antinori [m. 1865]) o ad un incerto eclettismo (Antonio Mezzanotte [1786-1851]).

Solo nella personalità e nell’opera di Luigi Bonazzi (1811-1879) la cultura risorgimentale perugina giungeva ad un suo esito davvero interessante. A quell’uomo, vivo nella tensione migliore del suo tempo e d’altra parte cosí legato al passato e alle prospettive civili della sua città, esperto in proprio di attività letteraria e artistica (fu attore e allievo di Gustavo Modena su cui poi scrisse un illuminante volume), la cultura umbra deve quella Storia di Perugia che – utilizzando la lunga tradizione di storia locale, e congiungendo il culto amoroso e foscoliano della tradizione ad una forte apertura nazionale e ad una vivace capacità scrittoria, educata e personale, ricca di entusiasmi generosi e di venature ironiche ed elegiache – risultò un libro vivo e vigoroso, moralmente e letterariamente efficace: e cosí profondamente perugino nella sua sostanziosa serietà e sobrietà. Un libro fondamentale certo nella educazione delle generazioni umbre postunitarie nella loro partecipazione alla difficile costruzione della Stato nazionale.

Sull’impulso della nuova vita nazionale non mancarono tentativi di una maggiore partecipazione umbra alla cultura e letteratura postunitaria, con propri apporti, come furono, piú efficacemente (mentre ad opera del Mazzatinti, e piú tardi del Chini e del Grifoni, si operava un recupero editoriale della poesia popolare umbra), in campo erudito e storico, prima il «Giornale di erudizione artistica», animato da Adamo Rossi, poi il «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», e come fu, in tono minore, la rivista letteraria del Tiberi, «La favilla», e poi «Augusta Perusia», diretta da Ciro Trabalza, studioso di aspetti letterari e linguistici locali e nazionali. Ma certo assai scarsa fu l’effettiva capacità creativa di quella che rimase una zona minore dell’Italia letteraria, malgrado la fama di cui godettero alcuni suoi rappresentanti come la gentile ben notevole poetessa zanelliana-leopardiana Alinda Bonacci Brunamonti e per il richiamo ad una ispirazione umbro-francescana della veneta Vittoria Aganoor Pompilj (1855-1910) vissuta a lungo a Perugia.

E anche nel Novecento sarà sí possibile e doveroso ricordare la presenza di notevoli scrittori e letterati di nascita umbra o viceversa di origine umbra (come il narratore Arnaldo Frateili di Piediluco, la scrittrice Flora Volpini di Citerna o Elsa De’ Giorgi, attrice e scrittrice di antica famiglia umbra e soprattutto Sandro Penna [1906-1977], perugino e vissuto a Perugia fino ai ventitré anni, lirico fra i piú schietti del Novecento italiano, la cui voce limpida e la grazia squisita, già provate nelle Poesie del ’39, si sono venute arricchendo coerentemente – intorno alle parole tematiche «vita infelice-felice» – di nuove esperienze vissute e di nuovi modi stilistici fino a Stranezze del ’76 e alle poesie postume), ma certo la maggior vitalità delle nuove forze umbre non trovò sbocco in una piú precisa attività letteraria, bensí piuttosto in un rinnovarsi di istanze morali etico-spirituali e politiche. Ed è in tal direzione che si potran segnalare, nel primo Novecento, un notevole apporto umbro al modernismo anche in sede di storia del cristianesimo (nella quale oltre a Tommaso Fracassini prese posizione autorevole Luigi Salvatorelli, di Marsciano, divenuto poi giornalista politico e storico antifascista di alto valore) e, piú tardi, una notevole attività etico-politica nella lotta contro il fascismo e in un nuovo incontro tra forze popolari e intellettuali, che molto deve, anche in campo nazionale, alla forte personalità del perugino Aldo Capitini (Perugia, 1899-1968), educatore e riformatore etico-religioso, che ha pur cercato una sua espressione poetica come voce di una tensione personale e «corale» ad una nuova realtà liberata e fraterna.

In anni ancor piú recenti, mentre si assiste alla ripresa di una forte creatività umbra nel campo figurativo che ha, al suo vertice, la grande opera di Alberto Burri (o quella dello scultore Leoncillo e del pittore Gerardo Dottori) e ad una diffusa ripresa di vita culturale, appoggiata dall’attività della Regione Umbria specie in sede di vita teatrale (si ricordi il regista e drammaturgo Massimo Binazzi) e musicale (a Perugia la Sagra Musicale Umbra, diretta dal perugino Francesco Siciliani, il Festival dei due mondi a Spoleto), par di dover rilevare il settore della critica e della linguistica (in cui emergono, a livello nazionale, la personalità di Ignazio Baldelli, di Perugia, storico della lingua, quella del sottoscritto, pure di Perugia, critico e storico letterario, e studiosi piú legati alla storia letteraria umbra, come Franco Mancini, editore di Jacopone), mentre nella vera e propria letteratura creativa non mancano interessanti segni, numerosi specie nel settore della poesia, in cui vanno ricordati almeno il satirico Gaio Fratini e i lirici Francesco Vagni, Patrizia Cavalli, A.M. Moriconi.